15 aprile 2011

CLAUDIO GARELLA, DETTO GARELLIK


Il Napoli che lotta per lo scudetto un po' fa tornare alla mente gli anni Ottanta. Che furono gli ultimi in cui le squadre non metropolitane, né blasonate, né ricche di famiglia riuscirono a vincere il campionato. L'ultima, a guardare gli annali, è stata la Sampdoria nel 1991. Ma a metà anni '80, quando pure in serie A c'erano Platini, Falcao, Rummenigge, Zico, due scudetti di fila andarono uno a Verona e uno a Napoli, per entrambe le squadre il primo tricolore della loro storia, per i gialloblù veneti anche l'unico.
L'anello di congiunzione tra quelle due imprese si chiama Claudio Garella. Per noi portieri dell'oratorio era un idolo, un modello, un esempio e una speranza. In oratorio, in porta ci finisce il più scarso, da sempre. Spesso il più grassoccio, spesso con gli occhiali e con i piedi quadri, spesso il più bersagliato, sia dai tiri degli avversari sia dagli improperi dei compagni, per un gol assurdo subito.
Come noi portieri dell'oratorio, Claudio Garella non ce lo aveva, il physique du role: capelli a caschetto-scodella, ottanta chili dichiarati sugli almanacchi, ma la maglia che faceva sempre un po' difetto sulla pancia e, apposta, quando possibile ondeggiava fuori dai pantaloncini. Arrivò a Verona da una carriera nomade, più da riserva che da titolare, e con i tifosi laziali che gli avevano affibbiato lo scomodo soprannome Paperella. Indovinate perché?
A Verona fu tutto diverso. Il Verona 1984-85 era un concentrato di scarti di altre squadre, messi insieme da Osvaldo Bagnoli, che arrivava dalla periferia di Milano e aveva la faccia da metalmeccanico turnista. Garella era lo scarto degli scarti: ai puristi del calcio veniva la pelle d'oca, a guardarlo tra i pali. Invece che con le mani in tuffo plastico, respingeva i tiri con i piedi, sedendosi per terra. In uscita bassa sembrava l'avanguardia di una mandria di bufali in corsa: ma la palla finiva sempre addosso a lui e mai in porta. In uscita alta sembrava intimidire gli avversari con il solo spostamento d'aria. Però parava. Da pazzi: in un Roma-Verona valse da solo il pareggio, con numeri che adesso finirebbero dritti tra i più cliccati di YouTube. Il soprannome Paperella finì in solaio, nel baule dei brutti ricordi. Diventò Garellik. Si prese lo scudetto e poi partì per Napoli, l'ambizioso Napoli di Maradona. Che in allenamento, raccontò Garella anni dopo, lo prendeva in giro segnandogli gol a raffica su punizione. Un privilegio che in partita Garellik non concedeva. E fu il secondo scudetto in tre stagioni.
E non è da tutti, specie se non si è scelta, per vincerli, la carrozza dei principi, quella garantita dalla maglia di Milan, Inter o di un'altra squadra a caso con la maglia a strisce. Di lui l'avvocato Agnelli disse: «È il più forte portiere del mondo. Ma senza mani». E Italo Allodi, dirigente di quel Napoli tricolore, aggiunse: «L'importante è parare. Non importa come».
Claudio Garella oggi ha quasi 56 anni, due scudetti in bacheca, nessuna presenza in Nazionale e un posto da allenatore del Barracuda, squadra di Seconda categoria della periferia di Torino, la sua città. In un'intervista del 2007 si lamentò di essere stato dimenticato dal grande calcio. Problemi del grande calcio: Ottantology no che non lo ha dimenticato, Garellik. E lo adora. A proposito: la foto qui a lato è un'istantanea tratta da una video intervista di pochi mesi fa, negli uffici del Barracuda. La foto lì sopra invece è del 2005, giorno della partita di addio al calcio giocato di Ciro Ferrara. La maglia ora fa un casino difetto sulla pancia. Ed è una ragione in più per volergli un sacco bene.

2 commenti:

  1. Certo che ti riesce proprio difficile nominarla l'altra squadra qualunque con la maglia a strisce neh?!?!?!?!?!?!?

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  2. non so di che cosa parli, Dany :p

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