Prima di lui, prima di loro, pensavamo che la pallacanestro americana fossero gli Harlem Globetrotters, e che nessuna squadra sulla faccia della terra potesse battere quell'acrobatico quintetto che si faceva beffe di schemi e legge di gravità.
Prima di lui, prima di loro, il campionato professionistico di laggiù si pronunciava all'italiana, enne-bi-a, come faceva Aldo Giordani, voce e penna della palla al cesto nostrana sulla Rai e su Superbasket. Ed era una faccenda da incistati esterofili, che a quelli normali in fondo bastavano le sfide infinite tra la Billy e la Sinudyne, trasmesse a partire dal secondo tempo il sabato pomeriggio, e in Coppa dei Campioni si doveva battere la Jugoplastika.
Poi la tv commerciale si invaghì degli americani. E scelse lui, Dan Peterson, per spiegarli a noi illetterati. Gli appassionati conoscevano già quel piccoletto nato in Illinois, con la faccia da duro e la statura sproporzionatamente bassa rispetto ai cestisti che catechizzava a ogni timeout. Ma non avevano idea che il coach fosse in grado di portare a termine un'impresa incredibile: rendere la pallacanestro americana nazionalpopolare, con le sue classifiche strane fatte di percentuali e di squadre che si affrontavano tutte ma poi erano raggruppate in divisions, e nessuna retrocedeva mai, con i nomi tutti stranieri (ovviamente) e l'organo Hammond che suonava la carica e le cheerleaders e la mascotte vestita da pupazzo che gasava il pubblico.
Cominciammo a chiamarla èn-bi-èi, ovviamente. E a conoscere squadre e campioni. E soprannomi. Se dico Julius Erving, fate una smorfia perplessa. Ma se urlassi Doctor J? Sicuro, vi torna in mente almeno una sua schiacciata con la canotta dei 76ers di Philadelphia. E EarvingJohnson chi è? Ancora perplessità. Ma se lo chiamassi Magic? Anzi, tutto attaccato, Magic Johnson? Era quello che passava la palla a Kareem Abdul Jabbar. E Kareem, con i suoi occhialoni tenuti sulla faccia dall'elastico, faceva canestro con il gancio cielo.
Nei meravigliosi anni Ottanta della pallacanestro americana in Italia, o stavi con Kareem e Magic, o stavi con Larry Bird e Robert Parish, o meglio The Chief. O con i Los Angeles Lakers o con i Boston Celtics. Dal 1980 al 1990, 8 titoli su 10 sono andati a queste due squadre (5-3 per i Lakers e tre finali una contro l'altra). E in mezzo a loro la voce fuori campo era di Dan Peterson. Che raccontava aneddoti e schemi, e quando Magic inventava un assist dietro la schiena urlava “Uuuuuuuuhhhh”. E quando Bird segnava il canestro del +15 per Boston a due minuti dalla fine, sentenziava: “Mamma, butta la pasta”.
Oggi che è il 2011, la Nba ha quasi più spazio della pallacanestro italiana, sulle pagine del quotidiano sportivo con la carta rosa. E il Forum di Assago, grande e semivuoto quando gioca Milano in campionato, si è riempito in prevendita e in un paio d'ore, quando sono venuti a giocare in Italia i New York Knicks, lo scorso autunno. In meno di trent'anni, un mondo sconosciuto è diventato un punto di riferimento per gli appassionati. Grazie a Magic, Bird, Kareem, alle partite su Canale 5 di allora. E grazie a Dan Peterson. Che, a proposito, quest'anno è tornato ad allenare. E chissà se lo dice anche nei time out “Mamma butta la pasta”...
E se volete godervi il racconto di quegli anni, leggete qui. Scrive Dan, il coach
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