Lo sport è bello anche perché non sempre vincono i favoriti. A volte vincono, e se lo meritano ed è giusto così, come lo stellare Barcellona che due giorni fa ha alzato per la quarta volta la Coppa dei Campioni (noi ottantologisti ci ostiniamo a chiamarla così e non Champions League). Ma a volte Golia trova un piccolo Davide sulla sua strada, un eroe per caso armato di una piccola fionda, che gli si para davanti e gli sbarra la strada.
In una sera di maggio del 1986, Davide aveva i baffi e i guantoni da portiere, e si chiamava Helmuth Ducadam. Il muro di Berlino era solido, quanto il potere della famiglia Ceausescu in Romania, e la Steaua Bucarest che raggiunse la finale era proprio la squadra favorita del presidente, oltre che la polisportiva dell'esercito. Raggiunse la finale di Coppa dei Campioni, con una squadra fatta solo di rumeni, perché le frontiere del blocco comunista erano impermeabili anche nello sport. Ma a Siviglia si trovò di fronte il Barcellona e un muro umano di tifosi blaugrana, oltre che una tonnellata di pronostico sfavorevole. Questione di formalità, pensavano tutti, e il Barça avrebbe alzato la prima coppa della sua storia. Invece passavano i minuti e i favoriti non segnavano, e gli sfavoriti resistevano, impermeabili come la loro frontiera. Si superò il 90' e anche il 120': nemmeno un gol tra tempi regolamentari e sopplementari. Toccò ai rigori. E a quel dinoccolato portiere con i baffi, fino a quella sera sconosciuto ai più. L'esito sta nei libri di storia, e negli archivi video: ne parò quattro su quattro. Coppa alla Steaua, fama imperitura per Ducadam.
O quasi. Il portiere dei miracoli scomparve oltre la cortina di ferro. E l'anno dopo non era né titolare né riserva. Le leggende, alimentate dai segreti del regime, si sprecarono. Un tifoso del Real (qualcuno pensò addirittura al re di Spagna) gli avrebbe regalato una Mercedes per ringraziarlo. E il figlio di Ceausescu, geloso, gli aveva spezzato un braccio, troncandogli la carriera. Lui, Ducadam, l'ha sempre raccontata in un altro modo, nelle sparute interviste rilasciate a regime caduto: una trombosi, appena un mese dopo quella finale, lo costrinse a un'operazione d'urgenza. Gli salvarono il braccio, ma la mobilità della mano era compromessa. Tornò nella sua città natale, Arad, con il grado di ufficiale dell'esercito e tornò in campo, nelle divisioni inferiori, solo tre anni dopo. Nel frattempo, con il fucile d'ordinanza, aveva contribuito alla rivoluzione del 1989. Poi, appesi i guantoni al chiodo, ha fatto la guardia di confine, crescendo i suoi due figli insieme alla moglie parrucchiera e conducendo una vita che lui ha sempre definito serena.
Ricomparve nel 2001, fresco di pensione (150 dollari al mese), e raccontò di aver vinto la lotteria americana per conquistare un visto d'ingresso negli Usa. Così si trasferì a Phoenix, in Arizona, forte di un inglese un po' stentato che nelle interviste alternava a uno strano mix rumeno-italiano. Gli States erano il suo sogno, diceva. E sperava di poter insegnare calcio oltreoceano.
Poi di nuovo oblio fino al 2010, quando il controverso milionario Gigi Becali, proprietario della Steaua Bucarest, lo ha richiamato in patria per nominarlo presidente della squadra. Ora è un omone che strizza i suoi 120 chili in una giacca e in una cravatta, e forse quei panni gli stanno un po' stretti non solo in senso fisico. Per gli eroi di una notte è dura riprendersi il palcoscenico dopo trent'anni di oblio.